L'importanza di ricordare

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L'importanza di ricordare

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.

Il 27 gennaio 1945 i soldati dell’Armata Rossa varcarono i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz e rivelarono al mondo gli orrori portati avanti dai nazisti. Con la legge 211 del 20 luglio 2000 è stata pertanto istituita la ricorrenza del Giorno della Memoria “al fine di ricordare la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.” (art. 1).

Il 27 gennaio di ogni anno è quindi diventata una giornata dedicata alla memoria. Dedicata al ricordo di tutte quelle persone la cui vita è stata tolta ingiustamente, colpevoli del semplice fatto di essere considerati “diversi”.

Il poeta Primo Levi nei versi posti come introduzione di questa riflessione, tratti da una delle sue poesie più famose, “Se questo è un uomo”, ci racconta quello che è successo a uomini e donne comuni. Persone che, da un momento all’altro non erano più considerati esseri umani, ma semplici individui espropriabili della loro dignità e della loro vita.

Tutti noi abbiamo sentito parlare dei campi di concentramento e dei terrori nazisti, ma è estremamente difficile comprendere ciò che realmente è stato quel periodo caratterizzato da una vera e propria assenza di umanità. Possiamo solo immaginare quell’orrore, ma forse i nostri pensieri non sono in grado di ricostruire ciò che è stato. Per questo motivo, è fondamentale ascoltare e ricordare sempre i racconti dei pochi sopravvissuti di quella tragedia, coloro che erano uomini e donne comuni, ma che dopo aver varcato la soglia di quei luoghi di morte sono diventati completamente diversi dagli altri. Allo stesso tempo è però fondamentale ricordare anche le storie di chi purtroppo da quei campi di sterminio non è mai uscito, permettendo loro di continuare a vivere attraverso i ricordi.

In particolare, abbiamo deciso di riportare le testimonianze di due deportati che provenivano da Monza e che quindi potremmo sentire più simili a noi.

La prima testimonianza è di Rosa Beretta. Nacque il 17 aprile 1924, iniziò a lavorare al cotonificio Cederna, e successivamente fu assunta come operaia alla Breda, dove conobbe Mario, suo futuro marito.

Fu arrestata il 12 marzo 1944 in casa, di notte, con l’accusa di aver partecipato al grande sciopero operaio del marzo ‘44; nello stesso giorno fu reclusa a S. Vittore con il numero di matricola 1890, consegnata dall’Ufficio politico della Questura. Il 13 marzo era già stata spostata nel raggio governato dai tedeschi dove venne nuovamente immatricolata, questa volta con il numero 16484.

L’operaia della Breda fu deportata con un convoglio partito il 5 aprile ed arrivato l’8 a Mauthausen. Venne trasferita molteplici volte in diversi campi di concentramento nazisti: da Mauthausen, dopo essere transitata per il carcere centrale di Vienna, giunse infatti il 2 maggio 1944 ad Auschwitz Birkenau (matricola 81293) dove fu internata nel campo “A” e sottoposta al lavoro forzato. Il 30 agosto era però a Ravensbrück (matricola 62093), lager prettamente femminile del sistema concentrazionario nazista; infine, il 16 novembre fu inviata a Buchenwald (matricola 31573); qui fu decentrata nel campo secondario di Taucha, in Sassonia, dove molte donne lavoravano in una fabbrica di lanciarazzi.

Sopravvissuta, tornò in Italia il 17 luglio 1945, ma dovette penare parecchio per riprendersi fisicamente e tornare ad una vita il più possibile normale.

I figli hanno sempre saputo di quel numero sul braccio della madre, ma la realtà celata dietro a quel tatuaggio è emersa solo dopo la morte di Rosa, nel 1989.

I figli Augusta e Marco, fino a che lei è rimasta in vita, non hanno mai saputo nulla con precisione: che avesse vissuto l’orrore di quattro campi di concentramento, Rosa Beretta non l’ha mai raccontato a nessuno. Lo sapeva solo chi avrebbe poi sposato agli inizi degli anni Cinquanta: Mario Rizzatti, deportato come lei in Germania, ma in un campo di lavoro poco lontano da Hannover.

Nell’estate del 1945 Mario e Rosa riuscirono a tornare a casa, nel 1954 si sposarono e in poco tempo misero su famiglia, cercando di affossare nella sicurezza della quotidianità l’orrore dei mesi in Germania. Rosa è stata fortunata a tornare a casa e poter costruirsi una nuova vita, ma il ricordo terribile di quegli anni non l’ha mai abbandonata.

La seconda testimonianza riguarda invece Giovanni Poli. Egli nacque a Civo, in provincia di Sondrio, il 31 Dicembre 1903, ma abitò a Monza nel quartiere di Sant’Albino in via Giovanni delle Bande Nere 210 (oggi civico 78), in una corte immersa nella campagna sulle sponde del canale Villoresi.

Fu padre di 5 figli che, all’età dell’arresto, avevano rispettivamente 17, 13, 11 e 7 anni, oltre ad un altro bambino che nacque il mese successivo. Fu operaio metalmeccanico della Falck Unione e partecipò ai primi scioperi organizzati dagli attivisti del sindacato operaio clandestino.

Nel gennaio del 1944, primo fra altri, si era costituito significativamente un “Comitato Liberazione Nazionale di Sesto - San Giovanni e Bicocca” che organizzò un imponente sciopero di 7 giorni, dal 1° marzo all’8 marzo 1944. Purtroppo, la polizia di sicurezza e i “repubblichini” dell’ufficio politico investigativo, con pressione e minacce, ordinarono alle direzioni di grandi e piccole aziende del territorio di compilare elenchi di operai da deportare in Germania. Sulla base di tali elenchi, le Milizie Repubblichine iniziarono immediatamente i rastrellamenti degli operai segnalati, quartiere per quartiere. In particolare, a Monza, nella notte fra l’11 e il 12 marzo di quell’anno, vennero arrestati 17 operai ritenuti colpevoli di aver partecipato attivamente agli scioperi dei giorni precedenti, tra cui Giovanni Poli.

Egli venne prelevato e condotto con gli altri alla caserma dei carabinieri di via Volturno a Monza e quella fu l’ultima volta che vide i propri cari. Completati i rastrellamenti alle 5 del mattino di domenica 12 marzo, finiti i primi interrogatori intorno alle 10 di quella mattina, venne poi caricato su una corriera e condotto alla Prefettura di Milano. Dopo un ulteriore sbrigativo interrogatorio, venne loro formulata l’accusa “di organizzazione e istigazione agli scioperi e atti di sabotaggio contro la Repubblica fascista” con la conferma dell’arresto per motivi politici. Subito dopo avvenne il trasferimento al carcere San Vittore e l’aggregazione ad altre decine di arrestati.

Un treno merci lo portò successivamente a Mauthausen. Giovanni Poli era la matricola 59068. La maggior parte degli operai del gruppo di Monza venne assegnata al sottocampo di Gusen I, a circa 5 km dal campo Mauthausen. Successivamente venne spostato al campo di Gusen II, dove morì il 16 giugno del 1944, all’età di 40 anni. Fu cremato il giorno seguente nel forno di Gusen I.

Nonostante siano passati oltre ottant’anni da questa tragedia, in cui è stato raggiunto uno dei punti più bassi dell’essenza umana, è ancora necessario tramandare il ricordo di quanto avvenuto con l’intento di restituire un po’ di dignità a tutti coloro a cui la stessa è stata tolta.

Non dobbiamo dimenticare perché il rischio che una tragedia simile possa accadere nuovamente è sempre presente. Sfortunatamente i sentimenti discriminatori e razzisti continuano ad esserci, magari non vengono sempre professati apertamente come accadeva qualche decennio fa, ma il seme dell’odio per il diverso non ha abbondano gli “uomini”. Ecco perché è importante ricordare: per evitare che questo seme possa crescere e distruggere nuovamente ciò che di buono si è sviluppato in questi anni.

Sono stati anni terribili e non possono essere cancellati, ma il futuro è ancora tutto da costruire. Sta a noi decidere se trarre degli insegnamenti positivi per costruire un mondo e una società volta alla fraternità oppure dimostrare che non abbiamo imparato nulla da quanto accaduto continuando ad esprimere i nostri sentimenti d’odio. Dipende tutto da noi: ricordare o dimenticare?

Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore

            Primo Levi

- Marzia e Chiara -

Le immagini utilizzate per questo articolo sono state scattate dalle autrici e dalla classe 4CLS durante il viaggio d’istruzione nell’A.S. 2023-2024.

Bibliografia:

  • https://www.riflessioni.it/testi/primo_levi.htm
  • https://presidenza.governo.it/USRI/confessioni/norme/legge_211_2000.pdf
  • https://www.ucei.it/giorno-della-memoria/
  • https://www.raicultura.it/webdoc/shoah-il-giorno-d ella-memoria/index.html#eventi
  • https://www.comune.pomezia.rm.it/it/news/27-gennaio-giornata-della-memoria-pomezia-ricorda-le-vittime-dell-olocausto
  • https://www.ilcittadinomb.it/news/cronaca/giornata-della-memoria-la-monzese-rosa-beretta-che-non-disse-mai-dei-quattro-lager-in-cui-era-stata/
  • https://www.provincia.mb.it/pietredinciampomb/le-vittime/giovanni-poli/
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