La mia vita è una guerra

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La mia vita è una guerra

La mia vita è una guerra ed io non ho mai la certezza di sopravvivere, perché se non mi ferisce lei lo fanno i miei pensieri. Sono in bilico costante, consapevole che senza impegno, ritorno al niente che i miei genitori mi hanno lasciato. Io mi sono fatta da sola, già da bambina ero diversa, quando andavo a casa delle mie compagne, l’ambiente non era ostile come quello a cui ero abituata, mi faceva strano vedere che le persone potessero amarsi senza urlare. Io sono sempre stata la pecora nera della casa: i miei genitori, sono cresciuti in contesti difficili e io sarei dovuta essere probabilmente simile a loro, ma la mia fortuna è stata crescere in un paese popolato per lo più da persone benestanti, con a casa due genitori provenienti dai quartieri popolari di Milano; la mia fortuna credo sia stata la possibilità di vedere che oltre alla violenza e alla precarietà si può essere felici crescendo senza odio. In realtà è stata anche fonte di una delle mie più grandi insicurezze: essere abbastanza, perché sul mio fronte ero abituata a combattere con rabbia, mentre i miei compagni erano sereni, mi sentivo sbagliata e ho imparato a mimetizzarmi tra gli altri; in realtà questa cosa non è mai bastata, perché la mia sensibilità si distingueva sempre, sia con i suoi aspetti negativi, che con quelli positivi. Ho trovato nella scrittura la modalità per esternare le mie guerre, il grido che è insito nella mia gola e che tengo a bada, ma che a volte esce disperato.

Ungaretti scrive di getto, come se il bisogno di comunicare le proprie emozioni lo soffochi. Dona alla singola parola un significato assoluto, come me, io sono una persona che ascolta, sono cresciuta da sola e questo era l’unico modo per capire se mi potessi fidare di qualcuno, sono diventata particolarmente attenta a come una persona si esprime: da come parla capisco se è benestante e da come ragiona, in che tipo di contesto familiare vive. La vita è come quell’uscita in cui ti stai divertendo talmente tanto, che pensi a quanto sarai triste quando finirà, tutti sono sempre alla ricerca del momento giusto, io invece non ho mai pazienza, quasi con foga cerco di occuparmi le giornate, perché ho paura di misurarmi con la mia mente; delle volte penso che forse sarebbe più semplice se prendessi tutto con più leggerezza, ma poi mi ricordo che sarei persa, perché odio la superficialità, la banalità, chi con inettitudine osserva il tempo scorrere.

Ho scritto diverse lettere piene d’amore, principalmente a chi non me ne ha mai dato, avevo bisogno di capire perché non mi volessero bene, che cosa avessi fatto per non meritarmi anch’io quel tipo di felicità. La mancanza d’amore crea insicurezza, cresci odiando chi ha la fortuna di averlo, perché ti senti sbagliata. La lingua che parlo non è decifrabile da chi non è stato sul mio stesso fronte, anche se in realtà io la guerra non volevo farla, dicono che sono forte, ma io non volevo essere forte, volevo essere serena. Scrivo lettere piene d’amore, perché qualcuno deve sapere che anche chi soffre ha un cuore, deve solo imparare a donarlo, perché quando affronti tutte queste sfide non accetti di essere etichettato “come gli altri”, senti il bisogno di urlare che sei diversa e che ne vai fiera. La società scredita quelli come me, non sappiamo stare al nostro posto e un senso di giustizia è ciò che ci caratterizza dal momento che abbiamo subito per la maggior parte del tempo; è più semplice gestire chi, in silenzio, obbedisce senza farsi domande.

Non sono mai stata tanto attaccata alla vita, forse è per questo che non dormo, ho sentito dire che sonno è cugino di morte e che per dormire è necessario avere pace; non è semplice dormire quando ti senti solo, quando senti sulle spalle la fatica, quando sai che il giorno dopo l’incubo ricomincia.

La notte è il momento migliore per scrivere, di solito è in quel frangente che si è più introspettivi, forse perché si è soli e bisogna fare i conti con se stessi; si pensa, i sensi di colpa prendono vita, i ricordi affiorano e la malinconia ti assale. Voi però, non gridate più, non gridate se li volete udire, non gridate, perché sono i silenzi che parlano più forte, occorre solo saperli ascoltare, sono gli occhi che illustrano, sono i sorrisi che nascondono e loro, che hanno l’impercettibile sussurro, non fanno più rumore, perché la vita gli ha insegnato che una singola peculiarità gli può essere fatale, perché un errore raramente viene perdonato e sanno che le botte fanno male. Ed io ascolto, non vedendo, in dormiveglia, le urla di litigi, sperando di non essere il pretesto di uno sfogo.

Un’alunna

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